venerdì 4 aprile 2008

40 anni fa moriva Martin Luther King

I Have a dream!




28 agosto 1963



« Oggi vi dico, amici, non indugiamo nella valle della disperazione, anche di fronte alle difficoltà dell'oggi e di domani, ho ancora un sogno. È un sogno fortemente radicato nel sogno americano.

Ho un sogno, che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali.

Ho un sogno, che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi proprietari di schiavi riusciranno a sedersi insieme al tavolo della fratellanza.

Ho un sogno, che un giorno persino lo stato del Mississippi, uno stato che soffoca per l’afa dell’ingiustizia, che soffoca per l’afa dell’oppressione, sia trasformato in un’oasi di libertà e di giustizia.

Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non siano giudicati in base al colore della loro pelle, ma in base al contenuto del loro carattere.

Ho un sogno oggi!

Ho un sogno, che un giorno, giù in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con il suo governatore le cui labbra gocciolano delle parole "interposizione" e "nullificazione" - un giorno proprio là in Alabama bambini neri e bambine nere possano prendersi per mano con bambini bianchi e bambine bianche come sorelle e fratelli.
Ho un sogno oggi!

Ho un sogno, che un giorno ogni valle sia colmata, e ogni monte e colle siano abbassati, i luoghi tortuosi vengano resi piani e i luoghi curvi raddrizzati. "Allora la gloria del Signore sarà rivelata ed ogni carne la vedrà" [...] »



Luther King, il viaggio infinito
di Walter Veltroni

Sono passati esattamente quarant’anni. Il 4 aprile del 1968 i telegiornali della sera facevano entrare nelle case degli americani la notizia: il reverendo Martin Luther King era stato assassinato con alcuni colpi di fucile a Memphis, sulla veranda del motel «Lorraine». Disordini, anzi veri e propri tumulti, erano già iniziati nei quartieri neri, nei ghetti di diverse città del Paese, immense prigioni di povertà e di discriminazione. Era un’America molto diversa, quella. Un’America divisa, con muri di odio e pregiudizio a separare dalla maggioranza bianca milioni di uomini e donne di colore, considerati cittadini di serie B. L’apartheid non c’era più, ufficialmente, dal 1954. Ma la segregazione era chiara e feroce ogni giorno: gli autobus con i posti riservati, i ristoranti vietati, le fontanelle di acqua potabile che avevano le suddivisioni white e colored. Le terribili croci infuocate del Ku Klux Klan a illuminare, nel modo peggiore, notti di razzismo e di morte.Se la storia in questi quarant’anni ha camminato così tanto, se l’America è cambiata tanto profondamente, molto lo si deve a Martin Luther King. Alle sue parole, alle battaglie non-violente per i diritti civili del suo popolo, dal primo grande successo ottenuto con il boicottaggio degli autobus a Montgomery, in Alabama, al Civil Rights Act voluto dal presidente Kennedy e approvato un anno dopo gli spari di Dallas.E in mezzo, tra l’uno e l’altro, quel giorno di agosto del 1963, le duecentomila persone protagoniste a Washington della più grande marcia di protesta della storia degli Stati Uniti. E quel discorso, il «discorso della montagna», destinato a restare per sempre, ad essere ricordato ovunque.Eppure il significato dell’opera di Martin Luther King è se possibile ancora più grande, diventa davvero universale, se si guarda più in là della lotta per la fine del segregazionismo. Il suo messaggio, soprattutto negli ultimi anni, era nel segno di un radicale cambiamento, e interrogava l’insieme della società americana. Era l’equità sociale, per lui, la nuova frontiera di un’azione continua, instancabile, pronta a superare resistenze e conservatorismi diffusi. Molto diffusi. Anche per inerzia, per abitudini culturali e persino atteggiamenti personali difficili da sradicare. Martin Luther King ne era perfettamente consapevole. «La grande maggioranza degli americani - diceva - è divisa: non si sentono a loro agio con l’ingiustizia, ma non sono disposti a pagare un prezzo significativo per sradicarla». E invece per la giustizia, per l’equità, per le opportunità da dare a tutti, senza badare a colore della pelle, estrazione sociale o fede religiosa, c’erano dei costi che la società doveva, e deve, essere disposta a pagare.Deve: perché i diritti civili hanno fatto passi fondamentali, perché i «negri» sono diventati prima «neri», poi «afroamericani» e oggi «africaniamericani», ma è altrettanto vero che il cammino verso quella frontiera della piena ed effettiva equità sociale è complesso e non senza contraddizioni. Sono gli afroamericani poveri a aver pagato più degli altri, a New Orleans, gli effetti dell’uragano Katrina. Sono soprattutto i ragazzi di colore ad avere come unica scelta, per lavorare, quella di arruolarsi nell’esercito. E magari di rischiare la vita in una terra lontana in nome di una «guerra preventiva» che ha già fatto quattromila morti. Al tempo stesso ci sono più studenti e più professori afroamericani nei campus universitari, più medici, più giudici, più giornalisti e manager di colore a far valere le loro capacità nella vita pubblica degli Stati Uniti di quanto non sognasse quel 28 agosto Martin Luther King, pensando al futuro dei suoi quattro figli piccoli e del suo popolo. Il sogno americano, un tempo di un colore solo, oggi è sempre più un sogno accessibile a tutti. Vale anche per la politica. Il mondo si è abituato in questi anni a vedere la più grande potenza della Terra rappresentata da Condoleezza Rice, prima ancora da Colin Powell. Oggi sembra a tutti normale che un giovane africanoamericano possa puntare, con grandi speranze e concrete possibilità, alla Casa Bianca. E la cosa più straordinaria è che lo stia facendo, Barack Obama, non per il suo colore, non perché esponente di una parte, ma rivolgendosi a tutti, all’intera comunità degli americani, chiedendo di essere sostenuto in nome del cambiamento. Chiedendo di cercare, in un Paese stanco delle lotte ideologiche combattute con toni aspri, ciò che unisce e non ciò che divide. Parlando indistintamente di valori, di lavoro, di educazione e di sanità a tutta la nazione, ai bianchi e ai neri, ai cittadini delle grandi metropoli della Costa Est così come all’America profonda del Sud. Ed è proprio Martin Luther King l’esempio, il simbolo più forte, di come gli ideali più alti, i grandi progetti di cambiamento, anche quando sembrano impossibili possono invece diventare realtà, e cambiare la vita di milioni di persone. Un grande scrittore ha detto una volta che «solo i viaggiatori finiscono, il viaggio non finisce mai». Quello di Martin Luther King, grazie ai passi e alle nuove idee di altri viandanti, continua.

La Stampa, 4 aprile 2008





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