venerdì 19 maggio 2006

La Juve restituisca lo scudetto

Per la Juve il vero scudetto sarebbe restituire lo scudetto. Da tifoso della Juventus, da tifoso dell'eleganza, del calcio come rappresentazione dei modelli classici, della kalokagathia, l'unione di virtù etica e bellezza corporea, vorrei che la mia squadra si avviasse a una nuova vita restituendo, spontaneamente e subito, questo maledetto scudetto dello strapotere e dell'impunità, questo primato che è un dolore, un'emozione truccata. Rinunci, la Juve, a quel simbolo andato a male. Per trasferimento di immagini, quello scandaloso scudetto rischia ora di guastare idee e simboli che espressero la Juve e che la Juve espresse in altre epoche, in altre generazioni. La Juve infatti è la città di Torino, è la famiglia Agnelli, è il genio italiano che impediva al capitalismo più ricco e potente di diventare arrogante e meschino, è il campione fuori dagli schemi, è la valorizzazione di tutto ciò che non è scontato, è la distrazione colta e di talento, è l'unità d'Italia, sono gli emigranti meridionali che solo il pallone rendeva aggraziati e ben fatti, goffi nella vita ma bellissimi in campo, uomini generosi che per conquistarsi il diritto di esserci carezzavano la palla e usavano i piedi come due mani di pianista.
Fortissimamente vorrei dunque che, senza aspettare alcuna sentenza, e ben prima che glielo tolgano, restituisse lo scudetto della furfanteria proprio la Società della quale noi tifosi siamo sempre stati fieri, perché non era una semplice società sportiva, ma una filosofia e una morale nazionali, l'ideale continuazione di quella stagione dell'Olimpo talentuoso che fu il Rinascimento italiano. La Juventus è un universo fiabesco di miti adolescenziali che più si invecchia e più diventano necessari. E quello scudetto va riconsegnato all'Italia proprio per salvare il bosco incantato dove Sivori era come capitan Miki, John Charles era Superman, Zidane come Black il Macigno, Nevdev come Tex Willer, Bettega come Achille, Scirea come Apollo e Boniperti come il padre di tutti gli dei. Persino gli avversari quando raggiungevano la maestosità, nel nostro cuore diventavano juventini d'elezione. Gigi Riva, per esempio, per noi era come Ettore: ci dispiaceva che non fosse acheo. Insomma la Juventus non può tenere uno o più scudetti chiacchierati e non specchiati. Offenderebbe innanzitutto la memoria dell'avvocato Agnelli, che scovava e covava i talenti, di qualsiasi genere; credeva nell'eccellenza e nei cavalli di razza che non hanno mai bisogno di spinte, di accordi sottobanco, di telefonate losche, di sequestri di persona, di volgarità. Noi non siamo ingenui, sappiamo che non esiste la carne senza il grasso, e che anche l'eccellenza ha un lato in ombra, perché c'è sempre un artificio, una causalità o magari anche un'ingiustizia nella costruzione di un mito. C'è sicuramente un rapporto tra la forza del danaro e la coltivazione del talento. È infatti vero che un'orchidea non si può inventare, ma è anche vero che ha bisogno di cure costose, di ingaggi, di premi partita; e della vicinanza di altre orchidee, perché i campioni si attraggono tra loro, sono come gli investimenti di capitali: si depositano nei luoghi eletti, già arati da altre eccellenze. I migliori vanno con i migliori. Gestire il calcio è un passatempo da Signori, che sono ricchi ma riconoscono il merito, soprattutto quello dell'avversario, ovviamente. Non basta infatti essere ricchi per meritare l'eccellenza. Né bastano intelligenza e competenza. È necessario lo stile, che è alto proprio quando è insidiato. È facile essere munifici e magnifici quando l'antagonista è raro. Ma è difficile "tenere" lo stile in democrazia, quando tutti, o quasi, hanno le stesse opportunità, e le squadre sono quotate in borsa, e i capitali arrivano chissà da dove e da ogni dove, e grazie ai successi gli impegni si triplicano sottoponendo ad usura la tenuta dei campioni. Si comincia con il fare uso di eccitanti, poi oscuramente si mettono in piedi sistemi di autodifesa, e a poco a poco il meccanismo si droga, il delitto diventa quasi naturale, lo sport si muta nel suo contrario, la prova aperta tende a trasformarsi in risultato acquisito. Ebbene, è proprio questo il momento in cui deve prevalere lo stile. Invece Luciano Moggi ha messo in piedi una efficientissima struttura di sostegno al migliore, dove il confine tra il furfante e il manager moderno è diventato indistinguibile. Attenzione: Moggi non è divisibile tra mascalzoneria e abilità. Il suo è "il paradosso del migliore" che, per difendere il migliore, cioè se stesso, comincia a utilizzare tutti gli strumenti, specie i peggiori. Tutto si può usare nello sport: l'ultimo ritrovato tecnico, la psicologia, l'attrazione, la forza di un'intera società specializzata nella vittoria, persino il malocchio e il fallo di mano sono legittimi.; a tutto si può ricorrere, ma non ai trucchi. Il confine tra l'ultimo ritrovato e il trucco è appunto lo stile, è la linea dell'etica personale e societaria. È difficile distinguere il grande scalatore Pantani dal cocainomane. Per farlo devi dire basta. Pantani non c'è riuscito ed è morto. La Juventus, o ci riesce o muore. C'è infine un'aggiunta di plebeismo, non tanto nella festa in discoteca dei giocatori domenica sera, e forse nemmeno nella sfrontata difesa che Capello fa di Moggi, magari dovuta alla incapacità appunto di distinguere il delitto dall'efficienza nella costruzione di parte della propria carriera. C'è purtroppo anche il plebeismo di quella tifoseria intellettuale che in questi giorni si affaccia sui giornali e in tv, e che a me, tifoso juventino, pare il peggio della tifoseria juventina. Invece di chiedere alla Juve di rimettere, intanto, lo scudetto, questi intellettuali bianconeri si fanno un merito di tifare come dei picciotti, si sentono veramente e finalmente tifosi, pronti a giustificare anche il delitto pur di conservare il primato. Prima, avevano il problema di essere finti tifosi, intellettuali raffinati con la ciliegia del gioco plebeo, un po' come Machiavelli che amava giocare a carte nelle bettole. Ora, approvando le furfanterie, cercano il bagno di tifo proletario vero, esibiscono una passione così gesuitica da farli diventare cadaveri. Per loro, il tifo irrazionale è come il cibo povero riscoperto al ristorante dai radical chic. Ebbene, secondo noi, non è questo lo stile della Juventus e il loro è un tifo che fa male. Difendere Moggi, da parte di questi "intellettuali organici" al tifo, è come difendere Ciancimino, come baciare Totò Riina. Perciò vorremmo che la Juventus fosse all'altezza di se stessa, di quel suo mondo antico dove il merito trionfava fulgido. Sia la Vecchia Signora insomma e, con tutta la consapevolezza, si guadagni lo Scudetto restituendo lo scudetto.
F. Merlo
La Repubblica, 16 maggio 2006

2 commenti:

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