mercoledì 18 febbraio 2009

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA



"La morte di Fabrizio de Andrè mi lascia senza parole e con un senso di vuoto". Più o meno erano queste le parole appuntate in un breve diario che tenevo in quegli anni e che ancora conservo da qualche parte.

Ricordo che la notizia mi raggiunse quasi appena sveglio, appena messo fuori il naso di casa a Venezia.

Mi colpì il vuoto. Sentivo di aver perso qualcosa che in qualche modo mi era vicino e che mi apparteneva.

Desideravo buttar giù qualcosa in occasione del decennale della morte ma il rischio sarebbe stato quello della banale commemorazione. Questi giorni di riposo forzato, grazie al virus australiano che mi ha colpito, mi hanno dato la possibilità di riflettere con più calma e di avere il tempo necessario per scrivere.

Partiamo da quel senso di vuoto: a cosa era dovuto?

Molti considerano, a ragione, Fabrizio de Andrè un poeta e già negli anni 80 nelle antologie liceali erano contenuti numerosi suoi versi. Inoltre era capace di un’arte difficile: unire in modo eccellente la parola con la musica. Dietro ad ogni canzone c’è uno studio profondo e minuzioso di ricerca lessicale, di rime, di sintesi. I testi descrivono concetti e situazioni in un modo mirabile, in un modo che non ci stai dietro al primo ascolto ma lo devi sentire più e più volte. E più ascolti più capisci, anche a distanza di anni lo apprezzi in modo sempre fresco e rinnovato.

Molti cantanti scrivono bei testi, perché non sono poeti o non sono considerati tali?

A mio avviso il poeta scuote, il poeta dice quello che senti dentro anche tu ma non lo sai dire, il poeta è la voce anche della tua anima. Con la poesia ti commuove, ti stupisce, ti fa dire “è vero è proprio così” oppure “avrei potuto dirlo anch’io” e lo dice in un modo che tu non sai neanche ripetere perché usa conc  etti e figure che non sai tradurre ma senti che ti sono dentro, che ti appartengono.

De Andrè, per me era così. I suoi testi sono da riascoltare in continuazione perché non li comprendi mai fino in fondo ma senti che ti sono vicini.

Ecco, quindi il senso di vuoto: l’aver perso la voce dell’anima. Qualcuno che parlasse al posto mio nel modo più adatto o che mi aiutasse a capire e di cui stimavi l’opinione.

Credo che tutti abbiamo perso qualcosa, come succede quando muore un poeta, perdendo la sua voce e tutto quello che ancora doveva dire scrutando dentro le nostre anime, dentro questa società e dentro questo mondo.

A rendere la sua opera ancor più bella e pregna di significato è la religiosità di cui è cosparsa.

Quasi per uno scherzo del destino la prima canzone del primo album è “Preghiera in gennaio” mentre l’ultima dell’ultimo album è “Smisurata preghiera”. Non so se intimamente pregasse, fosse credente o meno, al di là del suo essere sicuramente contrario a qualsiasi dogma e ordine costituito.

La religiosità che in lui avverto è fatta di libertà dagli schemi, libertà di pensiero e dai luoghi comuni. E’ ciò che gli permette di vedere la dignità degli ultimi e degli emarginati, di vederli protagonisti, comunque, anche se rifiutati dalla società.

Se in “Preghiera in Gennaio” si invocava la clemenza per i suicidi (fu scritta dopo la morte di Tenco) che per scelgono questa fine piuttosto che assecondare l’ignoranza e l’ipocrisia. De Andrè si rivolge ad un Dio misericordioso che ammette al Paradiso “perché l’inferno esiste solo per chi ne paura”.

In “Smisurata preghiera” lo stesso Fabrizio afferma, durante un concerto: « L'ultima canzone dell'album è una specie di riassunto dell'album stesso: è una preghiera, una sorta di invocazione... un'invocazione ad un'entità parentale, come se fosse una mamma, un papà molto più grandi, molto più potenti. Noi di solito identifichiamo queste entità parentali, immaginate così potentissime come una divinità; le chiamiamo Dio, le chiamiamo Signore, la Madonna. In questo caso l'invocazione è perché si accorgano di tutti i torti che hanno subito le minoranze da parte delle maggioranze.

Le maggioranze hanno la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi... dire "Siamo 600 milioni, un miliardo e 200 milioni..." e, approfittando del fatto di essere così numerose, pensano di poter essere in grado, di avere il diritto, soprattutto, di vessare, di umiliare le minoranze.

La preghiera, l'invocazione, si chiama "smisurata" proprio perché fuori misura e quindi probabilmente non sarà ascoltata da nessuno, ma noi ci proviamo lo stesso.»

Tra i due passano 28 anni, 15 album e 128 canzoni e, secondo statistiche attendibili (considerato che ne è nato un libro), si scopre che i quattro termini più utilizzati dal cantautore nell’intera sua produzione sono: "Dio/Signore", "Amore", "Cielo" e "Vento"; questi ultimi utilizzati sovente in senso metafisico (vento è spesso usato nel significato biblico di ruah, il soffio dello Spirito).

La religiosità che più mi piace e di cui parlo è una forte sensibilità e rispetto dei deboli ed una continua critica e condanna al sopruso dei forti e dei potenti, sempre ed in ogni momento, fino alla fine. Senza essere giustizialista o giudicante ma con un approccio, certamente diretto ma che lascia all’ascoltatore la libertà critica di costruirsi da solo il suo pensiero.

Gran rispetto, dicevo, e gran sensibilità verso i meno fortunati come non si sono viste altrove e cioè in luoghi e realtà che sarebbero deputati a questo e dove, in linea teorica, potrebbero fiorire i modo naturale.

Il De Andrè mangiapreti, quindi, è forse il De Andrè autentico ma comunque ancora libero di non perdere la speranza e di rivolgersi autenticamente e senza mediazioni ad una dimensione piu’ elevata.

Oggi sarebbe stato il suo compleanno.

Goditi questa puntata

 

1 commento:

Davide Zampese ha detto...

grazie!
Davide Z.