Buone nuove...
Hanefi è libero dopo tre mesi
"Thank you italian people"
Il Comunicato stampa da Peace Reporter
Kabul.
Rahmatullah Hanefi è di nuovo un uomo libero. Alle 16.00 locali di questo pomeriggio di sole, Rahmatullah è uscito dal portone dell'Investigation Department 17. Occhi stanchissimi, vestito con una shawar kameez bianca. “Salam Rahmat!”.
"Come stai?", chiede Gino Strada, che è andatoa prenderlo al carcere. "Sono vivo." risponde in pashtu. Poi, in italiano aggiunge "Sto bene".
Un abbraccio veloce, poi via di corsa sulle macchine di Emergency verso le case dello staff. Che lo attende con ansia, dopo aver preparato addobbi di rose rosse di plastica.
“E' qui con noi, è libero”: Gino Strada comunica rapido la notizia alla sede di Emergency a Milano. Dall'altro capo del filo si sentono urla e applausi. Il cugino di Rahmat, Abdullah, compone il numero di casa, a Lashkargah, nel cuore di quella provincia di Helmand che negli ultimi mesi è diventata l'epicentro della guerra. Passa il telefono a Rahmat che, dopo tre mesi può parlare con sua moglie. Le case dello staff di Emergency sono vicino all'ospedale dell'organizzazione, nella centralissima Shar-e-naw. Quando arrivano le macchine, il tè verde è già pronto su un tavolino, insieme a uvette e mandorle tostate.
Rahmat ha la barba cortissima. Sorride e sospira, mentre beve un'acqua tonica e telefona di nuovo a casa. Gino Strada è raggiante: "Questa è una bellissima giornata, una giornata di festa, non solo per Rahmat ed Emergency, ma anche, credo, per moltissimi afgani e moltissimi italiani".
Dopo tre mesi di attesa e paura, la situazione si è sbloccata lo scorso sabato. La famiglia e i colleghi di Rahmat sorridono. Adjmal Hodman, l'avvocato che ha seguito il procedimento a carico del manager di Emergency, ha ricevuto il verdetto della procura generale: prosciolto da ogni accusa. In Afghanistan scoppia un coro di Allah i karim, dio è misericordioso; in Italia volano i tappi delle bottiglie di spumante. Gino Strada lascia il centro di cardiochirurgia di Emergency a Khartoum, destinazione Kabul. Poi ricomincia l'attesa: “Manca solo la firma sull'ordine di scarcerazione”, dice l'avvocato. Rahmat passa un'altra notte nell'ospedale della security afgana, dove era stato nuovamente ricoverato per un problema ai reni.
Domenica mattina, sotto una coltre di smog, Kabul inizia la giornata con un boato. Un'esplosione investe un autobus di poliziotti afgani nel centro della capitale: il secondo attentato in due giorni. Almeno trentacinque morti, tanti poliziotti e tanti civili. Decine di feriti. C'è traffico in città, l'atmosfera è tesa: è il più grave attacco nella capitale dall'inizio di questa guerra afgana. Intanto, nelle case di Emergency si aspetta una telefonata. Il cugino di Rahmat continua a sollevare il polsino del suo shawar kameez bianco per guardare l'ora: sembra che l'orologio vada lentissimo. L'avvocato Hodman siede composto nel suo completo occidentale verde scuro, qualche filo bianco nella barba nerissima. Le ore passano, si bevono decine di tè, la caffettiera è sempre sul fuoco. Gino Strada fuma e parla in continuazione al telefono, si cerca di capire a che punto è la trafila delle lettere, dei timbri, delle firme. Nelle case di Emergency, un microcosmo afgano di pashtun, panjshiri, hazara. I fedelissimi dell'organizzazione sono tutti pronti per accogliere Rahmat, ma il telefono non suona. Nel primo pomeriggio, invece, si sentono dei botti. “Hai sentito? Due razzi..tre, quattro”: koko Jalil conta le esplosioni puntando l'indice verso est. Altre telefonate. “Il procuratore ha firmato, ora deve firmare il capo della sicurezza: ancora un rinvio, e le ultime ore di attesa rendono tutti nervosi, ora che la vicenda sembra finita. Il sole scende, e Rahmatullah non è ancora uscito: fardò, dicono, domani. Fardò, inshallah.
Lunedì si ricomincia. La trafila dovrebbe essere alla fine, manca solo la firma del presidente. Tè verde, altre sigarette, altre telefonate per capire se c'è qualche intoppo. “Quanto ci mettono a firmare?”, è la domanda che gira da una bocca all'altra, più per sfogare l'ansia dell'attesa che per avere davvero una risposta. “C'è il consiglio dei ministri”, si dice, “il presidente avrà da fare..”. “Purché non passi un altro giorno: sono le tre, e se aspettano ancora un po' a firmare diventa sera..” .
In città si commenta la notizia della strage di bambini nella madrasa di Paktika, nell'est del Paese. Il cugino di Rahmat smette di guardare l'orologio: è di nuovo sera, se ne riparla domani.
Cecilia Strada
"Come stai?", chiede Gino Strada, che è andatoa prenderlo al carcere. "Sono vivo." risponde in pashtu. Poi, in italiano aggiunge "Sto bene".
Un abbraccio veloce, poi via di corsa sulle macchine di Emergency verso le case dello staff. Che lo attende con ansia, dopo aver preparato addobbi di rose rosse di plastica.
“E' qui con noi, è libero”: Gino Strada comunica rapido la notizia alla sede di Emergency a Milano. Dall'altro capo del filo si sentono urla e applausi. Il cugino di Rahmat, Abdullah, compone il numero di casa, a Lashkargah, nel cuore di quella provincia di Helmand che negli ultimi mesi è diventata l'epicentro della guerra. Passa il telefono a Rahmat che, dopo tre mesi può parlare con sua moglie. Le case dello staff di Emergency sono vicino all'ospedale dell'organizzazione, nella centralissima Shar-e-naw. Quando arrivano le macchine, il tè verde è già pronto su un tavolino, insieme a uvette e mandorle tostate.
Rahmat ha la barba cortissima. Sorride e sospira, mentre beve un'acqua tonica e telefona di nuovo a casa. Gino Strada è raggiante: "Questa è una bellissima giornata, una giornata di festa, non solo per Rahmat ed Emergency, ma anche, credo, per moltissimi afgani e moltissimi italiani".
Dopo tre mesi di attesa e paura, la situazione si è sbloccata lo scorso sabato. La famiglia e i colleghi di Rahmat sorridono. Adjmal Hodman, l'avvocato che ha seguito il procedimento a carico del manager di Emergency, ha ricevuto il verdetto della procura generale: prosciolto da ogni accusa. In Afghanistan scoppia un coro di Allah i karim, dio è misericordioso; in Italia volano i tappi delle bottiglie di spumante. Gino Strada lascia il centro di cardiochirurgia di Emergency a Khartoum, destinazione Kabul. Poi ricomincia l'attesa: “Manca solo la firma sull'ordine di scarcerazione”, dice l'avvocato. Rahmat passa un'altra notte nell'ospedale della security afgana, dove era stato nuovamente ricoverato per un problema ai reni.
Domenica mattina, sotto una coltre di smog, Kabul inizia la giornata con un boato. Un'esplosione investe un autobus di poliziotti afgani nel centro della capitale: il secondo attentato in due giorni. Almeno trentacinque morti, tanti poliziotti e tanti civili. Decine di feriti. C'è traffico in città, l'atmosfera è tesa: è il più grave attacco nella capitale dall'inizio di questa guerra afgana. Intanto, nelle case di Emergency si aspetta una telefonata. Il cugino di Rahmat continua a sollevare il polsino del suo shawar kameez bianco per guardare l'ora: sembra che l'orologio vada lentissimo. L'avvocato Hodman siede composto nel suo completo occidentale verde scuro, qualche filo bianco nella barba nerissima. Le ore passano, si bevono decine di tè, la caffettiera è sempre sul fuoco. Gino Strada fuma e parla in continuazione al telefono, si cerca di capire a che punto è la trafila delle lettere, dei timbri, delle firme. Nelle case di Emergency, un microcosmo afgano di pashtun, panjshiri, hazara. I fedelissimi dell'organizzazione sono tutti pronti per accogliere Rahmat, ma il telefono non suona. Nel primo pomeriggio, invece, si sentono dei botti. “Hai sentito? Due razzi..tre, quattro”: koko Jalil conta le esplosioni puntando l'indice verso est. Altre telefonate. “Il procuratore ha firmato, ora deve firmare il capo della sicurezza: ancora un rinvio, e le ultime ore di attesa rendono tutti nervosi, ora che la vicenda sembra finita. Il sole scende, e Rahmatullah non è ancora uscito: fardò, dicono, domani. Fardò, inshallah.
Lunedì si ricomincia. La trafila dovrebbe essere alla fine, manca solo la firma del presidente. Tè verde, altre sigarette, altre telefonate per capire se c'è qualche intoppo. “Quanto ci mettono a firmare?”, è la domanda che gira da una bocca all'altra, più per sfogare l'ansia dell'attesa che per avere davvero una risposta. “C'è il consiglio dei ministri”, si dice, “il presidente avrà da fare..”. “Purché non passi un altro giorno: sono le tre, e se aspettano ancora un po' a firmare diventa sera..” .
In città si commenta la notizia della strage di bambini nella madrasa di Paktika, nell'est del Paese. Il cugino di Rahmat smette di guardare l'orologio: è di nuovo sera, se ne riparla domani.
Cecilia Strada
Il caso Hanefi, la cronologia
Gli articoli su Repubblica, del Corriere e dell' Unità
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